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Marco Aurelio
MARCO AURELIO

Veniva al galoppo, attraverso la landa, il tribuno coperto di polvere.
Innanzi al pretorio trattenne il cavallo spumante, gridò con il braccio levato: “Salute o Cesare! Abbiamo seguito il tuo sacro comando: abbiamo passato il Danubio sul ponte di barche ed abbiamo sorpreso a mezzo la notte il campo dei Sarmati.
O Cesare, quanti ne abbiamo scannati nel sonno!
Divampano ancora le fiamme dell’accampamento e dieci migliaia son presi, o Cesare, dieci migliaia di fulvi leoni dall’ispida chioma che scortino il bianco tuo carro pel sacro declivio di Roma!”.
E il cuore sbalzò d’improvviso nel petto dell’imperatore.
E per un istante non vide la steppa selvaggia, non vide l’azzurro Danubio, la nebbia dei grigi orizzonti; ma vide il corteo del trionfo salire tra i candidi templi.
Gli apparve l’immenso ondeggiare dei rami di palma, di mani levate, sentì l’infinita tempesta di canti, di grida, sentì quel clamore di gloria diffondersi in tutta terra; suonare nei tempi lontani…
Poi venne la notte purissima e calma.
Nel campo quadrato errava un richiamo di scolte, null’altro: ed i piccoli fuochi dell’uomo languivano sotto le stelle immortali.
Ma Cesare ancora vegliava. Pensava.
Con lui, nella tenda, non c’era se non la Vittoria con l’ali dischiuse, la Dea rifulgente nell’oro, e anch’essa, la statua solenne, vegliava.
Cesare alzò lentamente la fronte pensosa, fissò per un poco la lampada pendula, aperse lo scrigno. ne tolse lo stilo, la piccola tavola e scrisse: “ Il ragno si gonfia di orgoglio se ha preso una mosca, ed un altro si gonfia di orgoglio se ha preso un leprotto, , ed un altro si gonfia di orgoglio se ha preso un cinghiale od un orso, , ed un altro si gonfia di orgoglio se ha preso dei Sarmati.
Pensa!
“Non sono costoro assassini di fronte alle leggi supreme?”
E stette di nuovo sospeso fissando la lampada muta.
Allora nel grande silenzio parlò la Vittoria divina:
“ O Cesare, o uomo in cui trepida il piccolo cuore degli uomini, non misurerai con palpiti umani le leggi supreme! La legge suprema non volle la vita perché si dilaghi, perché s’impaludi nelle innumerevoli forme infinite, ma volle la vita che ascenda, divina e tremenda, cercando le forme più pure.
O Cesare, o pallido eroe che guidi le schiere di eroi per quella divina ascensione cui t’ha consacrato la sorte, dì, quante volte, sereno, offristi il tuo petto alla morte?
Che è santo il morire per essa, o pallido eroe, tu lo senti, tu senti che è limpido vanto, e come, non sai che per essa, ancora l’uccidere è santo?
O Cesare, o ombra di sogno che regni sopra ombre di sogni voi tutti non siete che forme caduche, che tenui parvenze fugaci, pervase nell’intima forza che sola è vivente e immorale.
E’ essa che uccide e che vince, che eterna rinnova ed innalza i destini.
Nel grande suo corso fatale, o Cesare, è nulla la gloria del forte, ma è nulla la morte dei vinti.
O Cesare, o breve mistero che tenti il mistero infinito nell’insuperabile cerchio segnato al tuo sguardo che trema:
IO, LA FECONDA VITTORIA, IO SONO LA LEGGE SUPREMA…”
Cesare uscì sulla soglia levando nel cielo la fronte pensosa:
guardò la purissima aurora,
balzò sopra il grande cavallo
e corse ad uccidere ancora.
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